Inclusione di genere: l’effetto positivo della diversità

di Fabrizio Negri, CEO Cerved Rating Agency

C’è una correlazione positiva tra la rischiosità delle imprese e la rappresentanza femminile in ruoli apicali, ma il bilanciamento di genere assicura i risultati migliori.

La parità di genere è un principio cardine del mondo contemporaneo. Ma ancora oggi, nel 2024, siamo lontani dal pieno raggiungimento dell’obiettivo. Eppure, non si tratta solo di aderire ad un principio etico, ma anche di assicurarsi migliori performances aziendali. Questa evidenza emerge chiaramente dalla nostra ricerca: “Impatto di diversità e inclusione di genere sul rischio delle imprese italiane”. Le analisi condotte su circa 15 mila società di capitali con rating creditizio in essere evidenziano che le imprese con almeno il 20% di donne nel Consiglio di Amministrazione risultano più robuste dal punto di vista economico-finanziario, meno rischiose sotto il profilo creditizio, hanno indicatori di sostenibilità maggiormente positivi e un tasso inferiore di infortuni sul lavoro e di contratti a termine. Ma la combinazione migliore sotto il profilo del rischio è quella che bilancia un Consiglio di Amministrazione a prevalenza ancora maschile con un amministratore delegato donna: le società con queste caratteristiche, infatti, presentano una probabilità di default inferiore al 3%, mentre la percentuale sale al 6,8% nel caso di società a totale guida maschile e a 7,3% per quelle, al contrario, a totale guida femminile.

Se dunque una maggiore inclusione femminile in ruoli apicali e un maggior bilanciamento del potere tra generi comporta il raggiungimento di migliori risultati, destano preoccupazione le altre evidenze della ricerca. Sull’intero perimetro di cinque milioni di imprese operanti nel nostro Paese, infatti, esiste un divario ancora significativo in termini di diversità di genere nel top management. La quota femminile di esponenti di impresa (procuratori, titolari, soci, sindaci) è pari al 30%, percentuale che si riduce al 27% se si considerano i soli membri dei consigli di amministrazione e al 25% se si considerano i soli amministratori. Si evince dunque che la rappresentanza femminile decresce al crescere del livello di governo.

La situazione internazionale non è migliore; lo rileva anche l’ultimo report della Banca Mondiale, “Women, Business and the Law”, secondo cui il divario di genere globale per le donne sul posto di lavoro è molto più ampio di quanto si pensasse in precedenza. Delle 190 economie analizzate, solo 35 hanno adottato misure di trasparenza salariale o meccanismi di applicazione della normativa per affrontare il divario retributivo e solo una su cinque impone criteri sensibili al genere per gli appalti pubblici. In questo report, che comprende anche altri indicatori, l’Italia è in vetta alla classifica per il quadro giuridico creato in termini di parità, ma è la nazione OCSE con il divario più ampio fra diritti riconosciuti e quelli effettivamente goduti dalle donne. Per fare un paragone: l’Italia ha valori intorno al 68,8% mentre la Norvegia è al 97,5%. In ogni caso, secondo questo report, nessun Paese offre effettivamente pari opportunità alle donne, nemmeno le economie più ricche.

Eppure, molti Stati, Organizzazioni internazionali e Governi hanno creato impianti giuridici, leggi e dichiarazioni per raggiungerla. Per l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e l’Unione Europea (UE) la parità di genere è un tema fondamentale e nel corso degli anni hanno adottato politiche e promosso iniziative per promuovere l’uguaglianza tra uomini e donne. L’ONU, già nella Dichiarazione Universale dei Diritti Umani adottata nel 1948, riconosceva il principio di parità di diritti e vietava la discriminazione di genere in ogni ambito. Sempre l’ONU dal 2015, con l’introduzione degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs), ha affrontato la parità di genere con l’Obiettivo 5, promuovendo in modo specifico l’accesso a istruzione, salute e partecipazione politica per le donne.

Anche l’Unione Europea (UE) se ne è occupata in diversi momenti della sua storia, con disposizioni e strategie atte a eliminare le disuguaglianze, promuovere l’empowerment delle donne e garantirne la partecipazione in tutti i settori della società. Questo approccio è presente fin dal Trattato di Roma del 1957, dove è incluso il principio di uguaglianza tra uomini e donne. Ed è proseguito nel tempo con la Direttiva 2006/54/CE riguardo l’uguaglianza di opportunità e di trattamento in materia di occupazione e impiego oppure il Piano d’Azione per l’Uguaglianza di Genere 2020-2025.

La parità di genere è anche un principio sancito nella Costituzione Italiana. Già nell’articolo 3 si stabilisce il principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione o altre caratteristiche personali. Inoltre, nell’articolo 37 si stabilisce la parità di accesso a lavoro e occupazione, l’uguaglianza di genere nel contesto lavorativo e garantisce pari opportunità di lavoro e tutela maternità, infanzia e i lavoratori in condizioni di particolare bisogno. Riferimenti importanti sono contenuti anche nell’articolo 51 dedicato alla famiglia dove si sottolinea l’uguaglianza tra coniugi e all’articolo 117 dove si rimanda a leggi specifiche anche a livello regionale per garantire l’eliminazione delle discriminazioni di genere.

Tuttavia, nonostante i principi enunciati nella Costituzione italiana e dagli organismi internazionali, la piena parità di genere resta un traguardo da raggiungere nelle società del mondo, anche a livello lavorativo soprattutto nelle posizioni più elevate. È quindi un processo in evoluzione che coinvolge molte persone, organizzazioni, governi e istituzioni in tutto il mondo. L’obiettivo finale è creare una società più equa, in cui uomini e donne godano degli stessi diritti, opportunità e accesso alle risorse.

Da parte nostra l’impegno nel continuare a misurare il fenomeno della “diversità e inclusione” per fornire a tutti gli attori argomenti oggettivi per il dibattito e l’azione. 

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