Greenwashing, fenomenologia e conseguenze per le imprese

Nel contesto della comunicazione sulla sostenibilità da parte delle imprese, è un rischio comune imbattersi in dichiarazioni ambientali generiche, formulate in termini poco chiari e trasparenti, che riguardano direttamente le attività e i prodotti aziendali.

Greenwashing e Greenhushing come pratiche scorrette

Tali strategie di comunicazione o di marketing sono note come greenwashing, in cui viene occultato l’impatto ambientale negativo di un’attività, esaltando d’altro canto il beneficio apportato all’ambiente. Nondimeno sono diffusi i fenomeni di greenhushing, con cui le imprese in un meccanismo difensivo, preferiscono non comunicare, non esporsi agli stakeholder sugli impatti ambientali esercitati dai propri prodotti per evitare sanzioni.

Tali rischi, però divaricano i confini della mera comunicazione. Nelle nostre attività di analisi ci troviamo ad accertare come la sostenibilità non sempre sia radicata nei processi o nella strategia aziendale e di come vi siano realtà aziendali che presentano una carente consapevolezza dei reali impatti ambientali delle proprie attività e di come sia necessario passare attraverso l’implementazione di procedure, policy, definizione di obiettivi e KPI ESG per comprendere a pieno e poi comunicare anche all’esterno i propri impatti ed esternalità rispetto all’ambiente.

D’altro canto, è invece positivo imbattersi in società capaci di adottare i giusti strumenti per pratiche di sostenibilità autentiche, approcci e modelli di produzione che di fondo presentano strategie di sostenibilità concrete. Tali imprese dimostrano di saper poi utilizzare le modalità di comunicazione più efficaci per far comprendere agli stakeholder l’impegno profuso e gli effetti positivi tangibili ottenuti mediante la propria strategia di sostenibilità.

La Direttiva Green Claims per il contrasto al greenwashing

I fenomeni di greenwashing comportano rischi di natura legale e su questo fronte il regolatore europeo ha intrapreso una strada decisa con l’approvazione recente della “Green Claims Directive[1]”, la quale pone divieti e obblighi di trasparenza in materia di claims ambientali e di sostenibilità e al tempo stesso detta delle sanzioni ed esclusioni al mancato rispetto dei requisiti definiti.

La Direttiva ha l’effetto di integrare l’elenco di fattispecie ingannatorie già previste nella Direttiva 2005/29/CE, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno, inserendovi ulteriori condotte tra cui ad esempio:

“formulare un’asserzione ambientale generica (ad esempio, “ecocompatibile”) per la quale il professionista non è in grado di dimostrare l’eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti all’asserzione”; oppure,

“asserire – sulla base della compensazione delle emissioni di gas a effetto serra -, che un prodotto ha un impatto neutro, ridotto o positivo sull’ambiente in termini di emissioni di gas a effetto serra” (ad esempio “a zero emissioni nette”); In secondo luogo, il greenwashing si presta a rischi di natura reputazionale. Le false aspettative generate verso i portatori di interesse, quali i clienti e i consumatori, sempre più orientati a preferenze di prodotto sostenibili e attenti alle dichiarazioni annesse, costituiscono un serio rischio per le imprese che esponendosi con messaggi ingannevoli e/o non veritieri o completi sull’impatto ambientale dei propri prodotti, rischiano di perdere il proprio posizionamento competitivo e di subire un danno alla reputazione anche di lungo termine.

Il greenwashing è una pratica da contrastare e in tale ottica sono ben visti e accolti gli interventi del legislatore europeo sia in tema di responsabilizzazione nelle modalità di comunicazione della sostenibilità con la sopracitata Direttiva, sia rispetto alla definizione di standard per l’uniformità informativa in ambito ESG.


[1] Direttiva (UE) 2024/825 del 28/2/2024

Gli standard di rendicontazione benefici per la trasparenza informativa

In tal senso la Corporate Sustainability Reporting Directive (CSRD) approvata dal regolatore europeo, porterà maggior rigore e disciplina sulle informazioni da riportare nelle dichiarazioni di sostenibilità, estendendo il perimetro di soggetti obbligati alla rendicontazione dei fattori ESG e nondimeno alla richiesta di asseverazione da enti indipendenti.

E’ opinione condivisa che la trasparenza informativa redatta secondo standard di reporting di sostenibilità (EFRAG o GRI), la dichiarazione esplicita di obiettivi e di iniziative strategiche con indicazione dei relativi impatti possono contribuire alla mitigazione di tali fenomeni anche perché maggiormente misurabili poiché coerenti.

Anche l’industria finanziaria dei prodotti di investimento potrà beneficiare del rafforzamento dei criteri di trasparenza indotti dalle direttive CSRD e SFDR ed i primi effetti sono stati già percepiti dal ricollocamento di prodotti classificati originariamente come art.9 ai sensi della SFDR (prodotti di investimento che hanno definito un obiettivo di investimento sostenibile) ad una più prudente classificazione ex art.8  SFDR (fondi che promuovono, tra le altre, caratteristiche ambientali o sociali).

Dal nostro punto di vista di ESG Rating provider, appare rilevante appurare come la sostenibilità di un’impresa non sia soltanto “parlata”, ma che essa sia effettivamente misurata o misurabile.

E la misurabilità di un’impresa passa necessariamente dalla trasparenza dei dati e dalla verifica che le pratiche di sostenibilità non siano epidermiche ma che vadano in profondità nei modelli di impresa essendo ancorate a processi e pianificazione integrata.

Il greenwashing ormai non paga più, non solo per perdita di fiducia e danno reputazionale, ma anche per conseguenze legali.

di Andrea Cincinnati Cini, Head Of ESG, Cerved Rating Agency

di Francesco Toffoletto, Senior ESG Analyst, Cerved Rating Agency